SPRING SPECIAL #1: LE AVVENTURE DI PINOCCHIO E ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
Abbiamo tristemente lasciato le fiabe (potete recuperare il primo post qui e il secondo qui) e siamo arrivati a confrontare alcuni romanzi con le loro trasposizioni Disney. In particolare oggi prevedo di parlare moltissimo di Alice e di meno di Pinocchio, principalmente perché Carroll mi piace molto mentre Collodi no, e fintanto che sono io a scrivere posso decidere su cosa concentrarmi.
Quello che posso dire in generale è che i romanzi, al contrario di alcune fiabe, sono stati davvero tanto edulcorati per il pubblico infantile. Il più edulcorato di tutti è Il gobbo di Notre Dame e il meno edulcorato Il libro della giungla, ma cionondimeno il target di riferimento è stato molto abbassato. Certo, la Disney come lo studio Ghibli hanno la grande qualità di rendere film per l’infanzia adatti a un pubblico di tutte le età. D’altronde credo che un film con il solo proposito di intrattenere il pubblico infantile non sia un buon film per bambini (e mi pare che qualcuno di più autorevole di me lo disse anche, ma al momento non ricordo chi).
«Destati, oh legno inanimato! Perché la vita io t’ho donato! »
Pinocchio è stato uno dei primi romanzi che io abbia mai letto, nell’epoca in cui, udite udite, detestavo leggere con tutta la forza del mio piccolo cuore. Mi ricordo ancora che mia madre, la persona che non smetterò mai di ringraziare per avermi costretta a stare seduta a leggere per un’ora al giorno fintanto che la Rowling non ha compiuto il suo miracolo, mi faceva anche raccontare la trama di quanto avevo letto, quindi Pinocchio lo conoscevo piuttosto bene, nonostante passassi praticamente mezzora a piangere disperatamente, quindici minuti a fissare rabbiosamente le pagine tentando di incenerirle con i miei poteri psichici e solo quindici effettivi minuti a leggere. Visto che questo è stato per me un “romanzo da sacrificio”, uno di quei romanzi cioè che ho letto nel tentativo di raggiungere il bene superiore, ovvero il piacere della lettura, potete capire perché non mi faccia poi tanta simpatia. Oltretutto, essendo un classico della letteratura italiana ma non avendolo mai studiato a scuola, mi chiedo se si scelga di non farlo studiare perché effettivamente non è poi questo granché. Qualcuno mi illumini. Perché a me è stato ficcato giù per la gola Verga dalle scuole elementari, quando poco poteva importarmene del suo realismo e dei suoi pregi letterari (sempre che ne abbia), sol perché era italiano e per giunta delle mie parti. Collodi non ha nessun merito a livello letterario? O lo abbiamo snobbato solo nelle scuole che ho frequentato io?
Detto ciò, chiedo scusa per il poco approfondimento del soggetto, ma questa volta ho dovuto attingere a Wikipedia, perché nei libri che ho usato come fonte le volte precedenti né Collodi né Pinocchio, in una qualunque delle sue varianti, sono citati.
A differenza di come ho agito con le fiabe, questa volta non starò a raccontarvi la trama del romanzo, perché è veramente molto lunga e ricca di avvenimenti. Pinocchio vive tantissime avventure, motivo per cui vorrei concentrarmi più sul significato del tutto che sulla trama nello specifico.
Quello che posso dire anche senza l’ausilio di Wikipedia è che il romanzo di Collodi, il cui titolo in realtà è “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, pubblicato nel 1883, è l’unico romanzo italiano completamente picaresco che mi venga in mente. Certamente ci sono personaggi nella letteratura italiana che intraprendono un percorso di formazione che li porta alla maturazione e alla presa di coscienza di sé e del mondo – un esempio che per qualche assurdo motivo che non colgo, dato che il romanzo non mi piace, mi viene in mente al momento è Renzo di “I promessi sposi” – ma nessun romanzo che sia totalmente incentrato su questo, perlomeno non che io sappia.
Ora, sebbene a quanto pare Italo Calvino la pensi nello stesso modo, a me viene immediatamente un dubbio: si può davvero considerare Pinocchio un personaggio in crescita? La sua bontà estrema lo rende così ingenuo da cadere in tutti i tranelli, in continuazione, e solo la fortuna dalla sua parte riesce a toglierlo dai guai. È un personaggio che intraprende un percorso di crescita, sì, ma c’è da riflettere sulla fine di questo percorso: c’è mai stata una fine? Un momento in cui si sia pensato “Da questo momento in poi Pinocchio sarà diverso perché ha imparato la lezione”? Io personalmente non lo ricordo, ma ribadisco la mia ignoranza in materia.
Pinocchio come personaggio è stato interpretato in una moltitudine di modi: secondi alcuni rappresenta metaforicamente l’infanzia tormentata di Gesù; secondo altri, visto che Collodi faceva parte di una loggia massonica, rappresenterebbe una persona in cerca della propria anima. Io invece sto a chiedermi se non sia il particolare del naso a rendere Pinocchio davvero famoso a livello mondiale. Insomma, anche chi non conosce la trama di Pinocchio sa che Pinocchio era il burattino a cui si allungava il naso quando mentiva. Elemento che, a quanto pare, avrebbe un esplicito significato sessuale, che però non capisco dove voglia andare a parare. Insomma, abbiamo parlato dei significati sessuali delle fiabe, quelli teorizzati dalla critica psicanalitica (da allora, tra l’altro, ho spulciato il libro in cui il più volte citato Bettelheim scrive tutto ciò, e c’erano persino più simbologie sessuali di quelle che ho menzionato), che però avevano un senso: le sorellastre di Cenerentola nella versione dei Grimm si “castrano” mutilandosi i piedi per calzare la scarpetta, e i loro piedoni simboleggiavano una femminilità aggressiva, poco adatta al matrimonio, contraria a quella passiva di Cenerentola; il fatto che Bella vedesse l’uomo come una Bestia era dovuto alla sua repulsione per l’altro sesso che indicava il suo non essere ancora pronta al matrimonio e quindi all’iniziazione sessuale; e così via. Ma che il naso di Pinocchio rappresenti il pene, dove vuole andare a parare? Dove ci porta questo elemento? Come cambia la nostra lettura della storia ora che sappiamo questo? Se qualcuno ha delle teorie o delle risposte di sorta, si faccia avanti e mi illumini, sono davvero curiosa.
C’è una stella su nel ciel
che ogni sogno può appagar
e la gioia più serena sa donar
e se a lei tu schiudi il cuor
con fiducia con amor
quella stella sul nel ciel ti ascolterà
(Pinocchio – Una stella cade)
Il film della Walt Disney esce nel 1940, ed è il secondo classico Disney dopo Biancaneve. La trama è ridotta all’osso, e mancano alcuni elementi che in altre trasposizioni sono invece stati resi. Se vogliamo quindi avere un’idea di come sia Pinocchio, converrebbe non affidarsi a questa. Basti pensare che una delle vicende più celebri di Pinocchio è quella della balena, balena che nel film è diventata un pescecane. E un po’ come non sapevo perché mi desse così tanto fastidio che nel film di Maze Runner piovesse nonostante la location nel deserto e nonostante nel libro fosse più volte specificato e ribadito e sottolineato e sottoscritto che nel Labirinto non pioveva mai, allo stesso modo, senza particolari ragioni, mi infastidisce il cambio di animale. Non so, dopo avermi fatto venire il terrore di poter essere ingoiata da una balena, cambiare animale mi è sembrato un tradimento. Non indagate sui miei processi mentali.
Ad ogni modo, se andate su Wikipedia a leggere le differenze tra il romanzo di Collodi e il film Disney, la sezione è più lunga della trama. Quello che cattura la mia simpatia nel film è il Grillo Parlante, non a caso diventato un personaggio icona. Il fatto che gli abbiano attribuito la narrazione della storia mi ha fatto piacere, oltre ad averlo reso uno dei narratori Disney più caratteristici, tanto che Disney Channel gli assegna la stessa parte anche quando deve presentare un momento particolare, come gli speciali di Natale (non so se il giorno di Natale il canale lo faccia ancora, ero al liceo l’ultima volta che ho avuto modo di guardare Disney Channel durante quel giorno). Nel libro il personaggio del Grillo non era fondamentale, si trattava di un personaggio minore. Kudos alla Disney per averne intuito le potenzialità.
La Fata Turchina, invece, è un personaggio che è stato fondamentalmente modificato per incarnare un certo tipo di ideale femminile. Sappiamo benissimo che spesso nei film creati per il grande pubblico vengono inserite figure femminili con lo scopo di alleggerire la trama (*caugh* Tauriel *caugh*). In questo caso il personaggio non è stato di certo creato dal nulla, esisteva anche nel romanzo, ma con una storia e delle caratteristiche ben diverse. La fata del film è stata modellata per incarnare l’ideale femminile degli anni ’30 negli Stati Uniti, quindi nemmeno un personaggio femminile secondario è sfuggito al rimodellamento disneyano secondo i canoni dell’epoca. Tra l’altro la modella che ha posato per il personaggio è la stessa che ha posato anche per Biancaneve, film uscito appena tre anni prima.
Concludo scusandomi per lo scarso approfondimento sul tema, siete i benvenuti se volete integrare il poco che ho detto con le vostre personali conoscenze, magari qualcuno riesce a farmi cambiare idea e a farmi piacere un po’ di più la storia!
«Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è, non sarebbe e ciò che non è, sarebbe! »
Giunge adesso il momento di spezzare il cuore a tutti quelli che pensano che Lewis Carroll abbia creato il paese delle meraviglie con la consapevolezza di quello che stava facendo. Cioè, mi spiego meglio: moltissimi pensano che Carroll abbia creato la sua opera con l’intento di creare qualcosa di grandioso e mai visto, con l’intento specifico di attingere a un apparato mitologico e folcloristico e creare qualcosa di nuovo, come ha fatto Tolkien, ad esempio. E invece non è affatto così. Carroll non ha scritto “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie” e il suo seguito, “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”, con pretese di artisticità. I fini non mancavano: la parodia della società vittoriana e delle sue regole e istituzioni; la consapevole rottura con la letteratura pedagogica per l’infanzia; l’esaltazione della cosa più importante che l’uomo possieda e anche quella più sprecata, ovvero il tempo. Tutti questi elementi molto forti sono stati però messi in ombra dalla Wonderland stessa, tanto che in un saggio di Alessandra Avanzini intitolato “Il viaggio di Alice. Una sfida controcorrente”, quando si parla del successo mondiale dell’opera, viene detto che “probabilmente, e paradossalmente, il motivo di tanta risonanza risiede proprio nel fatto di non essere stato compreso!”. Mentre alcuni romanzi oggi considerati per l’infanzia ma in passato puri testi di satira politica, come “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, sono stati privati del loro contesto e resi letteratura per l’infanzia perché i posteri non hanno più colto le allusioni politiche, secondo la Avanzini l’innovazione logico-cognitiva di Carroll era troppo raffinata persino per i suoi contemporanei. Quindi il testo è stato mal compreso persino alla sua prima pubblicazione.
Devo qui spendere qualche parolina in difesa del nostro Charles Lutwidge Dogson AKA Lewis Carroll, il quale viene spesso additato come pervertito pedofilo molestatore di bambine. Se oggi infatti è alquanto inquietante andare a fotografare bambine altrui (per quanto mi concerne anche le proprie) in, per così dire, desabillé, ai tempi non era niente di scandaloso, anzi, era di uso piuttosto comune. Carroll richiedeva ai genitori delle bambine fotografate di essere presenti al momento delle fotografie, oltretutto, e mai è stato da essi sospettato in alcun modo di rapporti con le bambine stesse. Moltissimi infatti ritengono che la sua fosse una curiosità puramente estetica. Altri ritengono che provasse un’attrazione solo platonica per i soggetti fotografati. Ad ogni modo non è mai stato dichiarato che abbia avuto rapporti con le ragazze, e anzi è stato dimostrato che ne ha avuto con donne adulte, single e non. Lungi da me chiaramente giustificare la mentalità vittoriana secondo cui questa pratica era del tutto normale, ma se mi calassi nella mentalità dell’epoca lo sarebbe. Non lo è oggi. Anche i greci giudicherebbero male gli ultimi secoli se sapessero come la società ha trattato l’omosessualità, quando loro se ne andavano in giro avendo rapporti con gente dello stesso sesso come se non ci fosse un domani.
Ora che abbiamo messo da parte, spero, la cattiva predisposizione nei confronti di Carroll, passiamo al suo genio nella logica e nella matematica e a come queste cose hanno contribuito a creare il mondo di Alice (personaggio ispirato a una delle bambine fotografate di cui sopra), che io adoro e ho sempre adorato, al contrario di Pinocchio.
Wonderland, anche se non può essere interpretata come allegoria di un mondo fantastico con qualche significato simbolico religioso/mitologico/filosofico, ha certamente altri significati. Uno fra tutti è lo stravolgimento della logica comune. Non si tratta però di un capovolgimento della logica, perché quello sarebbe molto semplice: basterebbe pensare ogni cosa al contrario e avremmo le regole secondo cui giocare. La parodizzazione della società vittoriana si palesa quando Alice, in un primo momento, s’impunta nel cercare di rispondere ai personaggi con il common sense. Ovviamente, però, i personaggi della Wonderland giocano in casa, perciò Alice viene sconfitta nel momento in cui non capisce e non sa come rapportarsi con gli altri. Il primo personaggio con cui Alice ha finalmente un dialogo e attraverso cui diventa palese agli occhi del lettore che l’unica vita di uscita che Alice ha è relazionarsi con gli altri, perché ogni conversazione ha bisogno di almeno due parlanti, è lo Stregatto. E a proposito di conversazione, il linguaggio, dopo il tempo, è forse l’elemento più importante nelle vicende di Alice. Il tempo come entità personificata è non solo una realtà sfuggente ma anche vendicativa: non saperlo gestire significa incorrere nella sua ira. I partecipanti al tè dei matti sono rimasti intrappolati nella stessa ora – le cinque del pomeriggio, quindi l’ora del tè – proprio perché hanno litigato con il tempo. Mi prendo qui una piccolissima licenza per far notare come, tra i personaggi che partecipano al tè dei matti, sia il Leprotto Marzolino quello più presente, e non il Cappellaio. Non so se la fortuna del Cappellaio Matto sia dovuta alla trasposizione di Tim Burton o se sia effettivamente sempre stato colui che catturava di più l’attenzione. Per quel che mi concerne ho sempre avuto un debole per il Leprotto Marzolino, che considero a tutti gli effetti un mio alterego romanzesco. Ma chiudo subito la parentesi.
Dicevo che oltre al tempo è molto importante il linguaggio, e in particolare il linguaggio condiviso, e quindi la conversazione. Quel che si dice va rivestito di importanza, non si possono dire le cose tanto per dire. “Una volta che si è detta una cosa, ciò la fissa e bisogna portarne le conseguenze”, dice la Regina Rossa, e non potrei essere più d’accordo. Ma l’ambiguità del linguaggio viene fuori durante l’incontro tra Alice e Humpty Dumpty, nel secondo volume delle avventure di Alice. Humpty Dumpty non dirà molto a noi come personaggio, ma nel mondo inglese era ben noto, ed era noto anche ad Alice: era il protagonista di una famosa nursery rhyme, ovvero una filastrocca. Costui non solo si rifiuta di essere il personaggio da filastrocca che è, ma vuole anche ergersi a manipolatore del linguaggio. Secondo lui, pagando un extra alle parole, le si può caricare di qualunque significato. Ovviamente questo rende la comunicazione impossibile. Se io dico banana ma intendo fenicottero, e l’altro non lo sa, perché per lui una banana è una banana, non ci capiremo mai. Bisogna che il linguaggio abbia una convenzionalità, altrimenti si cade nel solipsismo.
Le parole però hanno ancor più importanza nella vicenda di Alice nel bosco delle cose che non hanno nome. Secondo questa vicenda, è il nome delle cose che permette loro di esistere e che le definisce. Le cose senza nome non esistono. E se le parole non dovessero più creare relazioni, allora una bambina può essere amica di un animale, che non avrà paura di lei, perché non ci sarà nulla a regolamentare il loro rapporto.
Queste sono soltanto alcune vicende legate alla questione del tempo e a quella del linguaggio, ma essendo la prima protagonista e la seconda la specialità di Carroll, capirete che entrambi i romanzi ne sono pieni.
Tornando brevemente alla questione del rapportarsi con gli altri per trovare la via d’uscita, il personaggio con cui Alice più si relaziona è il Cavaliere Bianco, poveretto che, sebbene secondo gran parte della critica rappresenti Carroll stesso, non ha avuto poi molta fortuna. È lecito sottolineare come la maggior parte delle trasposizioni si concentrino sul primo viaggio di Alice a Wonderland, viaggio in cui Alice non incontra questo personaggio. La funzione di guida-amico-simpatizzante-inserite-aggettivo-a-caso-che-indichi-legame la assume sempre il Cappellaio. Posso capire perché, non dico di no. Posso capire per quale motivo il Cappellaio abbia oscurato sia il Leprotto che il Cavaliere: è un personaggio più strambo. Una lepre non è tanto lontana da un coniglio, e il Bianconiglio è il primo personaggio di Wonderland a comparire, quindi ci si relaziona prima con lui. Mentre il cavaliere, figura anziana e calma e quasi del tutto normale in quel mondo di matti, non risulta molto simpatica proprio grazie alla sua calma e normalità. La gente non legge/guarda Alice per trovarvi figure familiari. Lo legge/guarda per il nonsense.
Tuttavia il Cavaliere è molto più importante di quel che si penserebbe: guida di Alice, non solo la aiuta ad arrivare a sconfiggere la Regina Rossa e diventare lei stessa regina, ma è anche l’unico adulto che faccia eccezione all’affermazione “Alice è la prima bambina della letteratura a non imparare assolutamente nulla dagli adulti”. Nel mondo di Pinocchio gli adulti hanno ragione, sanno come bisogna comportarsi e il torto sta dalla parte del protagonista che non segue i loro consigli. Alice, invece, insegna come sia lei ad avere ragione, come gli adulti dicano e facciano cose insensate e senza testa né piedi. Ma il Cavaliere è l’eccezione che conferma la regola.
Oltre alla parodia sociale, alla distruzione della logica, alle riflessioni sul tempo e sulla metafisica, e agli spunti di riflessione ontologica, su cui non mi dilungo altrimenti scriverei un saggio degno di pubblicazione, vorrei prendere spunto da uno dei testi a cui ho attinto per scrivere questo post, ovvero quello della Avanzini di cui sopra, per parlarvi del paragone tra Alice e storie simili, la più importante quella di Coraline. La Avanzini prende come spunto il film del 2009 “Coraline e la porta magica”, e non il romanzo di Neil Gaiman (lo stesso scrittore di “Stardust”, notizia che a me lascia perplessa così come mi lascia perplessa il fatto che Ryan Murphy riesca a creare con la stessa testa Glee e American Horror Story. I loro sogni la notte saranno molto interessanti) a cui questo attinge perché non sufficientemente noto al pubblico. Io faccio la stessa scelta perché purtroppo non ho ancora letto il romanzo. Premetto che trovo Coraline un film spaventoso. Alla mia veneranda età di 19 anni, quando lo vidi per la prima volta, ho avuto difficoltà a guardarlo al buio per via delle scene finali. Se penso alla madre-surrogato che ingoia la chiave della porta, ho ancora gli incubi. Ad ogni modo da un lato amo da impazzire questo strano tipo di animazione stop-motion vagamente macabro, stile Frankenweenie o La sposa cadavere, ma dall’altro concordo sul fatto che la storia non abbia poi un messaggio tanto positivo. Se Alice finisce a Wonderland in sogno, sogno che sogna addormentandosi per via della momentanea noia, e da Wonderland esce senza poi troppe difficoltà, senza provare dolore e con pieno successo, Coraline al contrario finisce nell’altro mondo a causa dell’insoddisfazione e noia croniche della sua vita, e finisce per tornare non perché il mondo di partenza sia desiderabile ma perché l’altro mondo è peggio di qualunque incubo. Gli adulti nel mondo di Coraline sono persone che causano il desiderio di escapismo della bambina, cosa di cui gli adulti del mondo di Alice non si macchiano. Altra grande differenza che la Petrina nota è che mentre Wonderland è un mondo creato completamente ex novo, il mondo altro di Coraline è semplicemente una “distorsione della realtà”. Coraline è talmente irrigidita da non avere nemmeno la fantasia di creare qualcosa dal nulla. È lecito tuttavia specificare che il viaggio di Coraline è un viaggio nel proprio inconscio, non proprio in un altrove. L’inconscio di Coraline comunque non le insegna nulla di positivo: visto che i due mondi di Coraline non comunicano, al contrario di quelli di Alice, l’unica cosa che lei impara dal percorso è di non avere pretese troppo alte. Il suo mondo di partenza non migliora e lei non impara a gestirlo. Vive con i genitori che non la degnano di attenzione, genitori che tuttavia vengono salvati da Coraline, istillando forse il dubbio che gli adulti di oggi sono talmente assorti in quello che fanno da avere bisogno di essere salvati dai bambini. Saranno salvati, ma non si accorgeranno nemmeno di essere stati in pericolo.
Guidaci
Le meraviglie mostraci
In quei paesi magici
Che sai trovar
(Alice nel paese delle meraviglie – Il paese delle meraviglie)
Ammetto di non essere una grandissima fan della trasposizione Disney di Alice. La loro versione dello Stregatto è ai miei occhi una delle cose visivamente più agghiaccianti di sempre. Preferisco persino il Lucifero di Lady Tremaine in Cenerentola. Non so, quel sorriso mi disturba e la forma da porco a strisce fucsia e viola non mi aiuta a simpatizzare con il personaggio. Personaggio che inoltre in questa versione è negativo, mentre nel romanzo non lo era affatto (non che fosse attivamente positivo, ma negativo non era di certo). Devo dire che ho rivalutato lo Stregatto grazie alla versione di Tim Burton.
Ad ogni modo, il film esce nel 1951, e come ogni trasposizione di Alice, mischia elementi del primo romanzo con elementi del secondo, cambiando anche l’ordine di apparizione dei personaggi. Ovviamente in questo modo si perde l’idea dell’avventura di Alice come percorso. Vengono omessi tantissimi avvenimenti, tra cui alcuni di quelli che personalmente preferivo, come la Duchessa amante del pepe e quello con la tartaruga che racconta la sua storia.
Alla vicenda del tè dei matti viene attribuita più importanza, anche ficcando qui la celeberrima storia dei non-compleanni, che nel libro era Humpty Dumpty a tirare fuori, mentre qui è il Cappellaio, se la memoria non m’inganna.
La Regina Rossa, nei libri Regina di cuori, diventa inoltre molto più sanguinaria nel film che nel libro, dove in realtà il marito è altrettanto crudele, ma la loro crudeltà è del tutto inutile dato che le condanne a morte non vengono mai eseguite.
Ma a parte le ovvie e scontate differenze di trama, che nel caso di Alice, come dicevo, alterano completamente il messaggio del testo di partenza, il cambiamento più importante di tutti è sicuramente il motivo per cui Alice segue il Bianconiglio. Nel film lo fa perché desidera sapere dove sta andando. Nel libro l’obiettivo di Alice è quello di raggiungere il giardino che ha intravisto dalla minuscola porticina da cui non è riuscita a passare all’inizio, ovvero il giardino di rose della Regina. Secondo molti studiosi il giardino rappresenta il Giardino dell’Eden, sebbene non tutti siano d’accordo, dato il non trascurabile dettaglio che il giardino si dimostrerà non essere il luogo ameno che lei desiderava. La realizzazione della finzione del giardino sarà uno dei fattori che nel libro farà scattare in Alice la presa di posizione e, di lì a poco, la conquista del potere decisionale e il conseguente ritorno nel suo mondo. Tutto questo, nel film, viene inesorabilmente perso. Perciò rimango fermissima nell’affermare che se c’è un motivo per cui Alice nel paese delle meraviglie è così famoso è l’assoluto nonsense che la gente trova buffo e che nessuno sente l’esigenza di indagare. Viene percepito come storia leggera e divertente e basta.
Devo qui chiaramente spendere due paroline per la versione di Tim Burton del 2010, demonizzata alquanto da molta gente. Ammetto che per me il film vince anche soltanto grazie al vestito fatto di tende che Alice indossa. Ho un fetish assurdo per quel vestito lì. Ma a parte questo, se vogliamo parlarne seriamente devo dire che non sono d’accordo con la Petrina quando boccia categoricamente il film. Premetto che sono una di quelle persone per cui quello che Tim Burton tocca è oro (anche se sono fermamente e ferocemente contraria all’assegnazione della regia del remake di Dumbo a lui, ma questa è un’altra storia legata al mio disappunto per la direzione che la Disney ha preso nel recentissimo passato). Ma a prescindere dal mio apprezzamento per le atmosfere di Burton, e per Helena Bonham Carter e Johnny Depp, non trovo che il film abbia un messaggio sostanzialmente negativo, come la Petrina afferma. Certamente il fine della storia diventa tutt’altro, ma mentre nel cartone trovavo che banalizzasse il tutto, nei confronti di questa scelta – la storia come trampolino che facesse trovare ad Alice il coraggio di combattere le limitazioni sociali – non ho obiezioni. Oltretutto amo il lavoro fatto con lo Stregatto e il Brucaliffo, e idem con patate per i personaggi delle due regine. L’unica remora che ho è che il topino è un personaggio inutile e irritante. Piuttosto avrei dato molto più spazio al mio trascurato Leprotto Marzolino, che tuttavia ai miei occhi ha la battuta migliore del film:
Una trasposizione che è vagamente forse più fedele delle altre, e che soprattutto ha la vicenda della Duchessa con il pepe e della tartaruga a me tanto care, è un film per la televisione del 1999 con protagonista Tina Majorino nei panni di Alice (Heather Brooks in Grey’s Anatomy, per capirci). Questa particolare trasposizione ha un aspetto in comune con Coraline e una con il film di Burton. La prima è il fatto che i personaggi di Wonderland somigliano agli invitati della festa dei genitori di Alice, quindi non sono creazioni totalmente ex novo, ma nonostante ciò la storia è totalmente frutto dell’inventiva della protagonista. La seconda è la festa di partenza e di ritorno, che Alice impara ad affrontare grazie al viaggio. Ora che ci penso una seconda somiglianza con il film di Burton c’è: la Alice del 2010 toglie dalla spalla del suo pretendente un bruco blu, e alla fine, mentre salpa per la Cina, una farfalla dello stesso colore si poggia sulla sua spalla, farfalla che lei saluta con il nome di “Brucaliffo”. Viene lasciato quindi intendere che in minima parte la magia di Wonderland è anche nel mondo reale. Nel film del 1999, quando Alice torna ad affrontare gli ospiti dei genitori, dal pubblico le sorride lo Stregatto, lasciando passare lo stesso messaggio.
Bene, fanciulle e fanciulli, direi che con questo posso concludere il discorso di oggi. scusate se ci ho messo tanto a partorirlo, ma ho avuto una certificazione di inglese di cui preoccuparmi nel frattempo. Spero di non metterci tanto anche per i prossimi numeri. Ah, avviso anche che visto che siamo a marzo le rubriche sui romanzi si chiameranno “Spring special” invece che “Winter special”. Non vorrei arrivare a giugno ancora con le rubriche invernali.
BIBLIOGRAFIA E ALTRE ANNOTAZIONI
I testi da cui ho attinto sono:
La fiaba letteraria inglese: Metamorfosi di un genere, di Laura Tosi, Edizione Marsilio, 2007
Il viaggio di Alice: una sfida controcorrente, di Alessandra Avanzini, Edizione Franco Angeli, 2011
Le fanart sotto i titoli dei paragrafi sono state prese da QUESTA pagina tumblr (NON quella su Pinocchio, trovata su Pinterest).
Se vi interessa l’argomento disneyano, oltre a restare sintonizzati per i futuri post, potete anche correre a leggere questi, molto ben scritti e argomentati del mio blog preferito:
Le donne, i cavallieri, l’arme e gli amori: L’evoluzione delle principesse Disney dal 1937 al 2013
Là dove i cuori son fatti sì malvagi: L’evoluzione dei cattivi Disney dal 1937 al 2014